8 agosto 2012

L'ultima "carchera"


Ammantati, nei valloni sottostanti, da una vegetazione a tratti impenetrabile i Monti della Calcinara sovrastano a ponente Morano. Non si direbbe ma questi luoghi, così vicino alle attività degli uomini, nascondono ambienti selvaggi e fuori dal tempo, inoltre considerando la loro modesta altezza oppongono notevoli dislivelli a chi si cimenta per i loro erti versanti. Morano se ne sta avvolto sotto le pendici dei tre monti della Calcinara, a sinistra la cima più bassa il Cozzo Scorciabove con 1.282 m.s.l.m., al centro la cima più alta la punta del versante roccioso de La Calcinara con 1.303 m.s.l.m, chiude a destra il Monte Scaletta più basso del precedente di soli 4 metri.
Ci avviamo all’interno del Vallone Cammarella tra il colore ruggine di rocce dalle forme bizzarre, il sentiero termina davanti ad un’impenetrabile vegetazione, deviamo a sinistra all’interno di una giovane pineta, qualche decina di metri e riguadagniamo di nuovo il fondo del Vallone. Questa volta la traccia di sentiero è praticabile, la seguiamo nella frescura dell’ombra della vegetazione, in breve ci riporta sul sentiero principale facendoci così accorciare un po’ e difendendoci dalla calura del sole che fuori dal Vallone batte sulla bassa macchia mediterranea. 
 Il sentiero nel primo tratto sta per essere inghiottito dalla vegetazione (meriterebbe un po’ di manutenzione) poi si apre in un bel serpeggiare tra terrazzamenti di pietre realizzati durante il rimboschimento forestale degli anni ’50 e della relativa bonifica dei versanti che qui risultano abbastanza esposti a fenomeni franosi. Nell’ultimo tratto prima di arrivare al “quadrivio” pinnacoli di roccia dalle forme strane ci osservano mute. 
 Ci fermiamo per uno spuntino e per dissetarci, alcuni ne approfittano per affacciarsi sul “Belvedere della Castagnella” dove lo spettacolo è veramente indescrivibile. La foschia limita l’orizzonte ma lo sguardo arriva comunque a scorgere la linea della battigia del Mar Ionio. 
 Seguiamo la cresta seghettata, Pasquale sempre in testa, tra un saliscendi di pianori, bassa vegetazione e rimboschimenti non sempre allignati. 
 Morano se ne sta giù come un rettile attorcigliato nella sua tana quasi come a proteggersi dalla calura opprimente. Superiamo la nuda cima del Cozzo Scorciabove e arieggiati da un opportuno venticello giungiamo al Passo della Calcinara. 
 Risaliamo il pietroso versante meridionale della Calcinara, il sudore ruscella dai nostri corpi, un ultimo sforzo e siamo sulla cima 1.303 m.s.l.m., il vento che ci aveva abbandonato lungo la salita l’ho ritroviamo in vetta a rinfrescare i nostri corpi accaldati. Più in là dopo il Passo della Scaletta si innalza il Monte omonimo, la cima “gemella” della Calcinara che con i suoi 1.296 m.s.l.m. è di soli 4 metri più bassa della Calcinara.
 Ci ripariamo all’ombra di bassi aceri sui pianori di vetta del versante occidentale della Calcinara. Un pranzo frugale e poi di nuovo zaino in spalla. Una breve e non difficile discesa ci ricongiunge con il sentiero che conduce ai Colli di San Pietro. Camminiamo sotto il sole costeggiando un nudo tratto privo di vegetazione del versante sud-occidentale del Monte Scaletta poi all’incrocio in località Perlinchierico il sentiero si dirama: diritto porta ai Colli di San Pietro, noi giriamo a destra continuando all’interno di una fitta faggeta. I nostri corpi ringraziano per la frescura dell’ombra che da subito ci dà il benvenuto. 
 Ci muoviamo all’interno dei fitti versanti boscosi occidentali del Monte Scaletta, che aggiriamo da ovest a nord-est per giungere in località Ariella da qui in pochi minuti siamo a rifocillarci alla fontana di Piazza Croce.
La nostra escursione finisce qui. Ho pensato molto durante il cammino come un tempo questi luoghi fossero trafficatissimi mentre oggi sono quasi dimenticati. Numerose storie che su questi luoghi mi sono state raccontate da un non giovane ingegnere, nativo di Morano, storie di anni giovanili passati a giocare a calcio sul famoso “campo ra cuvucinera”, ma soprattutto quello che mi colpì è stato il racconto sulle “carchere”, la storia di famosi “petrajoli”, perché da questo passato la Calcinara prende il nome.
Fino a qualche decennio fa questo era il luogo dove venivano raccolte pietre calcaree e fatte cuocere in apposite fornaci di piccole dimensioni alimentate a legna e chiamate “carchere” o anche “cavucinere”. Da qui il nome che ha preso la montagna. Le “carchere” erano molto numerose nel nostro territorio. Attraverso questa costruzione veniva prodotta la calce viva che fatta reagire con l’acqua dava origine alla calce spenta. Occorrevano decine di persone e molte settimane per produrla. Gli addetti alla produzione della calce erano chiamati “carcareri”. Coloro i quali trovavano le pietre da cuocere e pertanto cavavano il calcare erano chiamati “petrajoli”, mentre gli addetti alla ricerca della legna necessaria per la cottura del calcare erano chiamati “fasciajoli”. Il mestiere di “carcareru” era molto pericoloso a causa delle forti temperature del gas che la reazione chimica sprigionava: l’acido carbonico. Oltre i pericoli c’erano anche i saperi che i calcinari si tramandavano di generazione in generazione, ad esempio i nomi degli utensili e le parti che costituivano una calcara, i periodi giusti per l’accensione, la durata della cottura, tutte esperienze che sono ormai scomparse. A quei tempi la calce era la principale materia legante per la costruzione delle abitazioni in pietra del nostro paese.  Ancora oggi gli intonaci preparati con la calce in molte case antiche del centro storico, quelle che non hanno subito ristrutturazioni, sfidano il tempo e l’incuria degli uomini. In passato la calce veniva utilizzata per disinfettare, per modificare il pH dei terreni, mista a solfato di rame per preparare la poltiglia Bordolese e per “medicare” le olive. 
 Le calcare venivano realizzate con una tecnica rimasta praticamente immutata dall’epoca romana. Veniva scavato un fosso profondo circa 3 metri per 4-5 di diametro, e se ne rivestivano le pareti con pietre sino al livello del suolo. Intorno alla parete si aggiungevano pietre sempre più voluminose fino a formare un muro circolare alto 2-3 m. Alla base veniva lasciata l’apertura per introdurre la legna e accendere il fuoco.  Intorno al fosso si continuavano ad allineare pietre sino a formare un cono basso e largo, la cui sommità veniva ricoperta con uno strato di argilla per evitare la dispersione del calore. Sul fondo veniva lasciato uno spazio vuoto per introdurre la legna. Il fuoco, veniva alimentato per 3 giorni e 3 notti di seguito dai “carcareri”. La temperatura sviluppata dal forno, di circa 900°, produceva la dispersione dell’acqua contenuta nella pietra, che diventava bianca, leggera e friabile. Ci si accorgeva della trasformazione in calce viva quando si diffondeva nell’aria un particolare odore sulfureo. A quel punto si cessava l’introduzione della legna per avviare la fase di raffreddamento. Dopo alcuni giorni si svuotava la calcara rimuovendo la copertura d’argilla e tutte le pietre. Dal luogo di cottura i sassi di calce venivano caricati sui muli in appositi contenitori e trasportati sui cantieri. Qui i sassi venivano immersi in vasche contenenti acqua. Nel corso di questo processo, piuttosto pericoloso, le pietre reagivano con violenza e ribollivano per vari giorni.  Quando il processo di reidratazione era avvenuto si formava la “calce spenta”, pronta per essere impastata con sabbia, acqua e altri componenti in base all’uso necessario. La malta veniva amalgamata con cura per mezzo di appositi strumenti di lavoro, per evitare la formazione di grumi nella calce.
Un progetto di grande interesse storico e culturale potrebbe prevedere il restauro e la valorizzazione di questa antica piccola “carchera” sotto le pendici orientali del Monte Scaletta realizzando un sentiero per riscoprire le antiche calcare e l’arte di cuocere la pietra, potrebbe diventare un’attrattiva eco-turistica ed un momento didattico e di educazione ambientale per le scolaresche. 
 Bisognerebbe sviluppare una conoscenza critica del territorio nella quale è inserita la nostra comunità stimolando quest’ultima, che vive ed opera nella zona, ad una riscoperta delle tracce naturalistiche e storiche impresse nel paesaggio.
 Molti giovani della mia terra non sanno più cogliere i segni del paesaggio perché troppo persi nel frastuono dei loro giorni. Per le giovani generazioni sembra che dove non ci sia rumore non ci sia vita. Hanno bisogno del rumore per sentirsi vivi, distratti dal rumore si accorgono troppo tardi del divenire delle cose. Il paesaggio che è silenzio contiene tutta la verità che la società umana sa in esso iscrivere e raccontare. Occorre astrarsi dai rumori per accorgersi che nel silenzio di un paesaggio si scoprono e si ascoltano le voci profonde della natura e con esso le relazioni profonde che noi abbiamo con il tempo e con la storia. 
 Un tempo la gente chiedeva alla terra ciò che essa gli poteva dare in un rapporto simbiotico tramandato di generazione in generazione e iniziato secoli prima. Le genti del passato costruivano i paesaggi nella continua ricerca di accordare il loro agire con la natura, non avevano bisogno di Piani Regolatori, PSC o Piani del Parco, la terra veniva rispettata perché sapevano che prima o poi quello che si faceva alla terra ricadeva sull’uomo. Oggi l’uomo moderno ha imparato con la tecnologia a costruirsi attraverso il paesaggio un mondo artificiale perdendo l’equilibrio, l’armonia, la musica della natura.
 Io resto del parere che se si vuole fare davvero qualcosa di buono per la natura, bisogna mostrarla alla gente e dividerla con loro per fargliene apprezzare lo splendore anche attraverso una passeggiata, un trekking o semplicemente un blog. Cieli sereni…

3 commenti:

indio ha detto...

Bella escursione tra natura e cultura contadina.. Anch'io come te ultimamente sto riscoprendo montagne e posti meno gettonati ma capaci di mostrare delle belle sorprese a chi le visita. interessante la proposta del sentiero in vista della promozione ecoturistica...Un caro saluto.
Indio

Imma ha detto...

"mi ci" devi portare ......le foto sono molto suggestive ma più che quello che mostrano d'impatto è quello che "non dicono " che voglio "sbirciare "....sono assetata di montagna, come da un risveglio da letargo vorrei correre lungo ogni crinale e RESPIRARE ...FINALMENTE RESPIRARE ciò di cui ho bisogno ...
appena ci liberiamo un pò veniamo anche perchè Miky ci deve raccontare il suo primo giorno d asilo ...
un bacio a tutti e 4
a presto
Imma

Nuwanda ha detto...

Vi ci porterò...questo è un angolo di montagna poco conosciuto e molto misterioso, è vero hai colto nel segno. Vi aspettiamo presto...noi siamo (come sempre!) un pò incasinati.....quindi meglio "che la montagna venga da Maometto" ihihihihi...un abbraccio, a presto.

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