In una decina di minuti la calda luce del sole esplora i canaloni, le creste di ghiaccio, le pareti rocciose di uno dei versanti montuosi più belli e spettacolari del meridione d’Italia: l’anfiteatro di vetta di Serra Dolcedorme.
Erano due anni che non infilavo i ramponi, due anni di inattività invernale. Me ne sono reso conto dopo aver fatto pochi passi, ho sentito i piedi ferrati come gli zoccoli di un cavallo. Era incredibile come avessi perso la “sensibilità” a danzare su quelle punte metalliche. E poi c’è da dire che pure io me le vado a cercare, dopo lunghi mesi “fuori dal circuito” mi vado a scegliere un bel canalone, una vena di sangue bianco che punta verso il cielo. E’ in momenti come questi che comprendi come la montagna, al pari della quotidianità, per affrontarla specie in situazioni difficili, ha bisogno di costanza, di allenamento, che non deve essere a volte necessariamente fisico, serve soprattutto un allenamento psichico. Mi sono reso conto che il mio corpo si era disabituato a fare fatica, era quasi incredibile come non riusciva più ad adattarsi alla severità di certi ambienti.
Ciò nonostante la mia voglia di curiosità, di spingermi oltre, la mia voglia di saggiare il brivido del limite fino al quale protendermi e l’incitamento del caro amico e “fratello” Salvatore mi hanno spinto a varcare ancora una volta questo confine, a guardarmi e poi entrare all’interno dell’intimo specchio che è dentro ognuno di noi e che aiuta a capire se stessi.
Questa ascesa mi ha ricondotto sulla strada maestra, una strada fatta di profondità, di emozioni e poesia. Mi ha ricondotto verso questo grande sentiero che aveva le sembianze di una grossa vena di sangue bianco dove ho ritrovato e riassaporato la capacità di sopportazione, il sacrificio e la tolleranza, tutte doti che la montagna esalta.
Tuttavia ad un certo punto abbiamo dovuto desistere e non seguire più quell’alveo bianco in quanto la montagna cominciava a scaricare qualche grosso masso, ma soprattutto e più frequentemente piccoli sassi, difficili da percepire e che arrivavano giù a tutta velocità come proiettili impazziti dalla traiettoria indecifrabile.
Così abbiamo traversato verso destra dirigendoci sull’ampio ghiaione posto sotto la cima del Timpone di Valle Piana, poco esposto a scariche di sassi ma non per questo meno ripido.
Così abbiamo traversato verso destra dirigendoci sull’ampio ghiaione posto sotto la cima del Timpone di Valle Piana, poco esposto a scariche di sassi ma non per questo meno ripido.
Mentre salgo, con il vento che a tratti ci scaglia addosso chicchi di ghiaccio, sento dentro di me la percezione vivida e vivificante di un confine fatto di luce e mistero, scorgo mio “fratello” che chiude gli occhi e si fa scuotere dal vento e al tempo stesso si fa accarezzare, questa volta, da finissimi granelli di ghiaccio, che nell’impatto con i nostri corpi producono un suono fatto di campane tubolari, capisco passo dopo passo che questo nostro confine si fa sempre più sottile e sempre più sospesi verso il cielo ci dirigiamo verso pinnacoli di roccia che osservano muti il nostro lento incedere.
Sul Passo di Valle Piana mangiamo qualcosa, un vento gelido si insinua dentro le pieghe della giacca, rimetto a suo agio la materia di cui sono fatto bevendo una tazza di the caldo.
Penso che se sarei stato in condizioni fisiche migliori saremmo qui già da un pezzo, ma è tardi, Salvatore guarda verso la cima di Serra Dolcedorme che si staglia nel cielo come un’enorme testa. Oggi per la prima volta da quando andiamo insieme in montagna tutti e due abbiamo mancato la cima.
Penso che se sarei stato in condizioni fisiche migliori saremmo qui già da un pezzo, ma è tardi, Salvatore guarda verso la cima di Serra Dolcedorme che si staglia nel cielo come un’enorme testa. Oggi per la prima volta da quando andiamo insieme in montagna tutti e due abbiamo mancato la cima.
Forse avrei dovuto dire a Salvatore di andare da solo, adesso che scrivo me ne rendo conto, avrei dovuto lasciarlo andare per permettergli di percorrere gli ultimi 150 metri di quella enorme testa fatta di roccia, ghiaccio e neve. E’ capitato altre volte che ci siamo anche alternati, se non arrivava uno in cima almeno arrivava l’altro. Ma questa volta non è stato così. Io ero rimasto senza benzina, non avrei avuto la forza di continuare. Salvatore c’è l’avrebbe fatta. Avrei dovuto dirgli di andare tra quelle rocce che brillavano come cristalli rivestite da infiorescenze di ghiaccio.
Tuttavia sono più che convinto che questi attimi sono comunque straordinari, sembrano creati apposta per essere ricordati e saranno ricordati per sempre. Perché ogni montagna sa essere piccola o grande, generosa o avara al pari ed in misura di ciò che sappiamo darle o chiederle. Oggi la montagna mi ha dato ancora una volta tanto, oggi sono stato contento di vivere insieme a Salvatore “mio fratello” questa prova di umiltà ed al tempo stesso di forza, questo mettersi alla prova in ogni istante. Perché anche questo cerchiamo in montagna: metterci alla prova che non necessariamente deve essere estrema o difficile, mettersi alla prova anche dal punto di vista di accumulare esperienze, di accumulare ricordi, di accumulare emozioni, viversi dentro, accumulare il dentro che è in noi, l’umano che è in noi.
Dal Passo di Valle Piana ci dirigiamo verso il Varco del Pollinello. La discesa all’interno del bosco è estenuante e faticosa, in alcuni punti sprofondiamo in un metro di neve. In questo momento lo sfinimento diventava l’oppio del mio corpo...dal “balcone” del Varco del Pollinello la natura faceva sentire forte il suo respiro, le luci si attenuavano delicate e le ombre iniziavano ad allungarsi sinuose. In questo istante ho scorto ancora una volta l’origine del mondo.
Sulla via del ritorno non siamo tornati vincitori o conquistatori di alcunché, siamo tornati, e questo l’ho sentito dentro al mio cuore, ancora più amici, ancora più “fratelli”. Perché la montagna insegna il distacco ma allo stesso tempo l’unione profonda.
Annegato nella luce sottile che fila via con il vento penso al ritorno, ad una nuova vita che sta per nascere, a quello che mi riserverà il futuro.
Sulla via del ritorno non siamo tornati vincitori o conquistatori di alcunché, siamo tornati, e questo l’ho sentito dentro al mio cuore, ancora più amici, ancora più “fratelli”. Perché la montagna insegna il distacco ma allo stesso tempo l’unione profonda.
Annegato nella luce sottile che fila via con il vento penso al ritorno, ad una nuova vita che sta per nascere, a quello che mi riserverà il futuro.
5 commenti:
Non la vetta, ma la cima del proprio sentire è “arrivare”…spingersi “oltre”….
scorrere lungo quella “vena bianca “ e respirarne l’essenza più intima …
quella percezione d’infinito che ti coglie nell’andare ,indescrivibile come indescrivibile è ciò che vi lega …
Una bacio grandissimo a Cesira,al piccolo Miki:un misto di dolcezza e tzunami,coccole e sberle …ahahah:-)))
Ed ovviamente al panciotto …
A presto
V’abbraccio tutti
Imma
Non sarei salito sulla cima per niente al mondo e lo dico davvero con sincerità. O tutti o nessuno! Certo, essere lì e non aver avuto quel piacere sopraffino e per pochi, ti lascia qualcosa di strano ma forse la prossima volta ce la gusteremo meglio. L'importante per me è stato rivederti su quei scenari a te cari....e poi cavolo che giro abbiamo fatto!!! Davvero incredibile...davvero indimenticabile!
Un forte abbraccio
Grazie di cuore per ciò che scrivere. Per l'amicizia e l'affetto che ci dimostrate. Spero ci rivediamo presto...Un abbraccio anche da parte nostra.
...mazza che foto spettacolare quella della testata,mica fatta dalla Calcinara?
Ciao a presto.
Caro Giuseppe non è stata scattata dalla Calcinaia bensì dai Cozzi della Castagnella, che sono montagne "satelliti" della Calcinaia. Diciamo che con la Calcinaia hanno in comune il Vallone Cammarella. Un abbraccio ed a presto.
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