Di notte pare
accentuarsi il peso del tempo su queste case, le ombre smorte ed allungate di
questi vicoli paiono dei buchi neri che inghiottono le case vuote mancanti dei
tetti, mancanti di bordi e confini, per quanto ancora si potrà continuare a
vivere nella stanchezza di questi vuoti bui!?
Il peso del tempo
sgretola le case. Me ne accorgo dalle pietre che escono dai muri come ossa
spolpate, dall’intonaco che giace su cumuli polverizzati ai lati dei vicoli mentre
fermo lo sguardo sulle porte di legno ingrigite dal tempo e chiuse da chissà
quanti anni! Annuso il vuoto del loro silenzio, sembra quasi si congedano dal
progresso. Scorgo altre porte mentre prosieguo la mia “via crucis”, porte “moderne”, altre in ferro, verniciate di
bianco, di rosso, di marrone, di nero, altre murate con blocchi, altre ancora con
mattoni, pare un museo delirante di infissi e serramenti.
Rocce ciclopiche
spuntano da sotto i muri delle case, sorreggono le rampe dei gradini in un
connubio perfetto, millenario che cela molti misteri. Solo queste rocce paiono
non sentire la morte ed il peso del tempo.
Da Sellàro la campagna
di notte appare come fatta di tante luci sfrangiate, la mia sagoma cammina
sulla lunga gradinata che fiancheggia questo costone dell’abitato. Un tempo il
territorio e l’abitato era un tutt’uno connesso ed intrecciato, il centro
storico di Morano è venuto su nel tempo senza bisogno di piani urbanistici, si
guardava ai bisogni della comunità e non alle vicende dei singoli.
Mentre salgo, una
figura in lontananza pare attendermi. So che di sera vedere qualcuno camminare
tra questi vicoli può rappresentare per gli abitanti di queste vie quasi una
minaccia. Dopo avermi riconosciuto la donna quasi risollevata mi racconta che
ultimamente in questo posto ci sono stati dei furti all’interno delle case e
che è raro vedere persone camminare per queste strade specie a sera a parte i
pochi residenti.
Ci salutiamo mentre
prosieguo il mio cammino tra queste case raccolte, tra le crepe che spaccano i
muri e le luci che sembrano mantenere una speranza, ma più ci cammini tra
questi vicoli più capisci che la luce inesorabilmente è destinata a spegnersi e
diventare il lume di un grande sepolcro. Muri e luci stanche, chi abita questi
vicoli non si sente più sicuro, invece dovrebbero dare un premio a chi ancora
accende una luce tra queste case a coloro che nonostante tutto continuano a
rimanere e dànno anche agli altri un faro verso cui tornare, sono gli abitanti
del centro storico la bellezza povera del mio borgo, sono loro che hanno deciso
di stare in un luogo ripido e scosceso a differenza di me che ho deciso di
abitare in un posto comodo e pianeggiante.
Sfila la mia ombra tra
questi luoghi e sono carne e respiro, luce e storia, squarcio e tremore. Spio
da sopra i muri, mi affaccio su tetti fantasmi e pavimenti sfondati, molte
pietre da secoli accolgono pioggia e sole, neve e vento, sono case diventate altari
all’aperto.
In questo nido
silenzioso ci sono i miei ricordi infantili, i palloni che rotolavano negli
orti, i maiali e le galline vicino alle porte delle case, gli asini e i muli
che risalivano lisci selciati scavati dalle acque piovane, le donne con gli
scialli, gli uomini con le cappe, l’odore del pane che aspettavo davanti al
forno. Faccio spazio in me per trovare i rumori dell’epoca, ma ci sono solo porte
chiuse, silenzio ed anime leggere che a tratti percepisco dietro le luci delle
finestre, ombre rimaste sole che non hanno nessuno con cui parlare.
Percorro questi vicoli
per cercare di sfuggire all’inquietudine che mi porto dentro da sempre, qui
prima c’era la miseria, ora la desolazione. Eppure c’è una nuova miseria che
avanza dopo quella materiale, è la miseria spirituale, la percepisci nelle
chiese chiuse e abbandonate un tempo sempre aperte che davano sollievo a coloro
che ritirandosi dalle fatiche quotidiane dei campi entravano per cercare un
conforto religioso e forse anche una protezione divina per affrontare quei
tempi durissimi e insidiosi.
Oggi le chiese sono
diventate antichi sarcofaghi vuoti da illuminare di sera con luci moderne per
sentirle ancora vive. Vengono aperte le domeniche, alle feste parrocchiali ed
ai funerali quando tutti sono più emozionati o quasi, sicuramente meno
aggressivi. Un tempo era tutto un raccoglimento, uno stare vicino, adesso tutto
ha un prezzo in questa fiera dell’abbandono, un mercato questo che sposta il
paese, lo spopola di quel poco che gli rimane. Morano prima era tutto un
palcoscenico, uno sfondo dove tutti facevano parte della stessa cornice.
La Chiesa della
Maddalena resta chiusa ed il campanile sgretolato, il Polittico “ingabbiato”,
in altre “epoche” la comunità avrebbe fatto qualcosa, chiesto spiegazioni, ma
mi rendo conto che di questi tempi anche le piazze sono in crisi. La nostra è
terra poco propensa ad incoraggiare i suoi figli migliori, abbiamo smarrito la
voglia di ammirazione, tutti contagiati da una nuova forma di pestilenza, o
forse perché in questa società della comunicazione non abbiamo più niente da
dirci, tra le tante crisi un’altra è anche quella del parlare, questa
lacerazione dei legàmi, questa nuova forma di infelicità che non deriva da
fatti personali ma dal contesto in cui viviamo.
Il fumo lambisce come un
grande fantasma i tetti delle case, solo i panni stesi sembrano non sentire il
peso di queste rovine mute impregnate di fuliggine e sofferenza.
Quando accompagno i
visitatori tra questi vicoli li aiuto per un po’ a dimenticarsi della loro vita
e le parlo di queste strade, di questi muri, perché qui scorre un tempo che non
è quello dei nostri giorni, qui cresce un grano tra i fili elettrici e le ragnatele
e vicolo dopo vicolo senza inseguire niente e nessuno scivoli piano lungo un
margine silenzioso.
Il mio paese è come un
affresco da vedere, è una nicchia nascosta, una casa senza figli partiti per
lavorare lontano. Il mio paese è un santuario, una processione con sempre meno
gente, il mio paese è la mia paura, un mistero, è una sezione di partito chiusa
che riapre solo durante la campagna elettorale. Il mio paese è una carta moschicida,
un ring dimenticato, una valigia già pronta per partire, il mio paese è un
vecchio deformato dall’artrosi, è un museo dell’aria, una canonica abbandonata.
Il mio paese è un assegno in bianco, un pane appena sfornato, un gesso bagnato,
una sposa lasciata, uno scapolo disoccupato. Il mio paese è un bambino che
nasce, un cuore, una luce, un respiro, una storia. Il mio paese è una trave
annerita, una ringhiera di ferro, una staccionata, il mio paese è timido e
sfacciato, è una fuga che non è mai finita. Il mio paese è una molletta stretta
a un filo, una caccia all’infinito, è una gomma liscia sulla neve.
Il mio paese
è un “mi piace” su facebook, è un “vendesi” ed “affittasi” di case, un fiume
che scorre disorientato, è un farmaco, un lucchetto, un nido silenzioso, una
fotografia appesa alla parete.
Il mio paese è un angolo di portone che accoglie
l’incarto della pizza e bottiglie di birra vuote abbandonate. Il mio paese è un
ricordo lontano, un passante che non saluta. Il mio paese è una strada di cento
metri con quattro bar e tre supermercati. Il mio paese è una mano e un piede
dove il sangue arriva meno, è un testamento, è un fuoco acceso, un filo di fumo.
Il mio paese è un bel paese, è un adesso che non c’è più, è una terra su cui
scrivere con un chiodo di pane.
Non ho nessuna pretesa
di insegnamenti, percorro questi vicoli come se gli portassi un po’ di affetto,
tra questi muri riesco a percepire meglio me stesso, ma ogni volta che salgo
sembra l’ultima, come per un saluto, un congedo in equilibrio sul ripido della
Vita.
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