16 febbraio 2015

Il mio paese...



Di notte pare accentuarsi il peso del tempo su queste case, le ombre smorte ed allungate di questi vicoli paiono dei buchi neri che inghiottono le case vuote mancanti dei tetti, mancanti di bordi e confini, per quanto ancora si potrà continuare a vivere nella stanchezza di questi vuoti bui!?
Il peso del tempo sgretola le case. Me ne accorgo dalle pietre che escono dai muri come ossa spolpate, dall’intonaco che giace su cumuli polverizzati ai lati dei vicoli mentre fermo lo sguardo sulle porte di legno ingrigite dal tempo e chiuse da chissà quanti anni! Annuso il vuoto del loro silenzio, sembra quasi si congedano dal progresso. Scorgo altre porte mentre prosieguo la mia “via crucis”, porte “moderne”, altre in ferro, verniciate di bianco, di rosso, di marrone, di nero, altre murate con blocchi, altre ancora con mattoni, pare un museo delirante di infissi e serramenti.
Rocce ciclopiche spuntano da sotto i muri delle case, sorreggono le rampe dei gradini in un connubio perfetto, millenario che cela molti misteri. Solo queste rocce paiono non sentire la morte ed il peso del tempo.
Da Sellàro la campagna di notte appare come fatta di tante luci sfrangiate, la mia sagoma cammina sulla lunga gradinata che fiancheggia questo costone dell’abitato. Un tempo il territorio e l’abitato era un tutt’uno connesso ed intrecciato, il centro storico di Morano è venuto su nel tempo senza bisogno di piani urbanistici, si guardava ai bisogni della comunità e non alle vicende dei singoli.
Mentre salgo, una figura in lontananza pare attendermi. So che di sera vedere qualcuno camminare tra questi vicoli può rappresentare per gli abitanti di queste vie quasi una minaccia. Dopo avermi riconosciuto la donna quasi risollevata mi racconta che ultimamente in questo posto ci sono stati dei furti all’interno delle case e che è raro vedere persone camminare per queste strade specie a sera a parte i pochi residenti.  
Ci salutiamo mentre prosieguo il mio cammino tra queste case raccolte, tra le crepe che spaccano i muri e le luci che sembrano mantenere una speranza, ma più ci cammini tra questi vicoli più capisci che la luce inesorabilmente è destinata a spegnersi e diventare il lume di un grande sepolcro. Muri e luci stanche, chi abita questi vicoli non si sente più sicuro, invece dovrebbero dare un premio a chi ancora accende una luce tra queste case a coloro che nonostante tutto continuano a rimanere e dànno anche agli altri un faro verso cui tornare, sono gli abitanti del centro storico la bellezza povera del mio borgo, sono loro che hanno deciso di stare in un luogo ripido e scosceso a differenza di me che ho deciso di abitare in un posto comodo e pianeggiante.
Sfila la mia ombra tra questi luoghi e sono carne e respiro, luce e storia, squarcio e tremore. Spio da sopra i muri, mi affaccio su tetti fantasmi e pavimenti sfondati, molte pietre da secoli accolgono pioggia e sole, neve e vento, sono case diventate altari all’aperto.
In questo nido silenzioso ci sono i miei ricordi infantili, i palloni che rotolavano negli orti, i maiali e le galline vicino alle porte delle case, gli asini e i muli che risalivano lisci selciati scavati dalle acque piovane, le donne con gli scialli, gli uomini con le cappe, l’odore del pane che aspettavo davanti al forno. Faccio spazio in me per trovare i rumori dell’epoca, ma ci sono solo porte chiuse, silenzio ed anime leggere che a tratti percepisco dietro le luci delle finestre, ombre rimaste sole che non hanno nessuno con cui parlare.
Percorro questi vicoli per cercare di sfuggire all’inquietudine che mi porto dentro da sempre, qui prima c’era la miseria, ora la desolazione. Eppure c’è una nuova miseria che avanza dopo quella materiale, è la miseria spirituale, la percepisci nelle chiese chiuse e abbandonate un tempo sempre aperte che davano sollievo a coloro che ritirandosi dalle fatiche quotidiane dei campi entravano per cercare un conforto religioso e forse anche una protezione divina per affrontare quei tempi durissimi e insidiosi.
Oggi le chiese sono diventate antichi sarcofaghi vuoti da illuminare di sera con luci moderne per sentirle ancora vive. Vengono aperte le domeniche, alle feste parrocchiali ed ai funerali quando tutti sono più emozionati o quasi, sicuramente meno aggressivi. Un tempo era tutto un raccoglimento, uno stare vicino, adesso tutto ha un prezzo in questa fiera dell’abbandono, un mercato questo che sposta il paese, lo spopola di quel poco che gli rimane. Morano prima era tutto un palcoscenico, uno sfondo dove tutti facevano parte della stessa cornice.
La Chiesa della Maddalena resta chiusa ed il campanile sgretolato, il Polittico “ingabbiato”, in altre “epoche” la comunità avrebbe fatto qualcosa, chiesto spiegazioni, ma mi rendo conto che di questi tempi anche le piazze sono in crisi. La nostra è terra poco propensa ad incoraggiare i suoi figli migliori, abbiamo smarrito la voglia di ammirazione, tutti contagiati da una nuova forma di pestilenza, o forse perché in questa società della comunicazione non abbiamo più niente da dirci, tra le tante crisi un’altra è anche quella del parlare, questa lacerazione dei legàmi, questa nuova forma di infelicità che non deriva da fatti personali ma dal contesto in cui viviamo.
Il fumo lambisce come un grande fantasma i tetti delle case, solo i panni stesi sembrano non sentire il peso di queste rovine mute impregnate di fuliggine e sofferenza.
Quando accompagno i visitatori tra questi vicoli li aiuto per un po’ a dimenticarsi della loro vita e le parlo di queste strade, di questi muri, perché qui scorre un tempo che non è quello dei nostri giorni, qui cresce un grano tra i fili elettrici e le ragnatele e vicolo dopo vicolo senza inseguire niente e nessuno scivoli piano lungo un margine silenzioso.
Il mio paese è come un affresco da vedere, è una nicchia nascosta, una casa senza figli partiti per lavorare lontano. Il mio paese è un santuario, una processione con sempre meno gente, il mio paese è la mia paura, un mistero, è una sezione di partito chiusa che riapre solo durante la campagna elettorale. Il mio paese è una carta moschicida, un ring dimenticato, una valigia già pronta per partire, il mio paese è un vecchio deformato dall’artrosi, è un museo dell’aria, una canonica abbandonata. Il mio paese è un assegno in bianco, un pane appena sfornato, un gesso bagnato, una sposa lasciata, uno scapolo disoccupato. Il mio paese è un bambino che nasce, un cuore, una luce, un respiro, una storia. Il mio paese è una trave annerita, una ringhiera di ferro, una staccionata, il mio paese è timido e sfacciato, è una fuga che non è mai finita. Il mio paese è una molletta stretta a un filo, una caccia all’infinito, è una gomma liscia sulla neve.

Il mio paese è un “mi piace” su facebook, è un “vendesi” ed “affittasi” di case, un fiume che scorre disorientato, è un farmaco, un lucchetto, un nido silenzioso, una fotografia appesa alla parete.

Il mio paese è un angolo di portone che accoglie l’incarto della pizza e bottiglie di birra vuote abbandonate. Il mio paese è un ricordo lontano, un passante che non saluta. Il mio paese è una strada di cento metri con quattro bar e tre supermercati. Il mio paese è una mano e un piede dove il sangue arriva meno, è un testamento, è un fuoco acceso, un filo di fumo. Il mio paese è un bel paese, è un adesso che non c’è più, è una terra su cui scrivere con un chiodo di pane.   
Non ho nessuna pretesa di insegnamenti, percorro questi vicoli come se gli portassi un po’ di affetto, tra questi muri riesco a percepire meglio me stesso, ma ogni volta che salgo sembra l’ultima, come per un saluto, un congedo in equilibrio sul ripido della Vita.

Nessun commento:

Posta un commento