15 marzo 2013

Quello che ancora vive...

(seconda ed ultima parte)

Mentre avanzo, quei vetri illuminati riflettono figure, gesti, sguardi. Mi avvicino per metterle a fuoco. Sbircio attraverso quelle tende di vetro. Ora la luce all’interno è più soffusa, scorgo delle candele ed un camino acceso, appoggio meglio le mani al vetro ma un sudore gelido mi fa indietreggiare spaventato. Rammento che in questa casa non abitava più nessuno da molto tempo! Adesso la luce dei vetri è di nuovo intensa ma gradatamente che mi avvicino si attenua misteriosamente. Mosso più da curiosità che forse da coraggio torno di nuovo sui vetri, dapprima facendo ombra con le mani per paura che mi restituissero il volto di qualche sconosciuto, poi accosto di nuovo il viso sui vetri freddissimi. Vedo due donne, di cui una un po’ più anziana,  vestite in quello che dovrebbe essere il tradizionale costume moranese, assorte vicino al camino ad adoperarsi con lavori manuali. Dai capelli, bianchi come la neve, risaltano dei nastri rossi a forma di treccia, la famosa “scettula”, come rosso è anche un pesante scialle di lana portato sulle spalle, una lunga veste nera forse “a gunneddra” ed un grembiule credo bianco. Appesa alla camastra, in una grossa pentola nera, dell’acqua bolle ma le donne sembrano non badarci.
La più giovane delle due è intenta a lavorare la lana mentre quella più anziana sgranocchia il granturco all’interno di un grosso secchio di latta. Credo di aver riconosciuto la donna più anziana ma non mi va di dire chi è, ora che queste righe sono diventate pubbliche. E’ morta da tempo, pace all’anima sua.
Più in là scorgo degli uomini intenti a realizzare degli utensili di legno che serviranno per la casa e poi ancora in un continuo susseguirsi di figure, gesti e sguardi, sempre davanti al camino, vedo riuniti giovani e bambini ad ascoltare dai “vecchi” storie avventurose di monaci e preti, di re e regine, di principi e principesse, di orchi, streghe, fantasmi, diavoli ed eroi che alimentano i sogni di avventura ed il desiderio di evasione di quei giovani fanciulli.  
Sono preda di visioni in questa quieta desertificazione di anime. Ora il posto del focolare l’ha preso il televisore ma non è più la stessa cosa.
Mi rendo conto che questo centro storico oggi per me sta diventando un microcosmo dove poter vivere altre vite, per questo ogni volta che ne ho bisogno ci torno, anzi vorrei ritornarci per vivere tra questo visibile ed invisibile, fra questi vivi e trapassati. Appena avrò la possibilità voglio comprarmi una casa nel centro storico per riconfortarla del calore di una famiglia, una casa accogliente, dove radunare le vecchie cose.
Perché per l’uomo, in quanto “animale sociale”, ritengo non ci sia perdita più brutta di quella che è la dimensione più intima e vitale dell’individuo: la perdita dell’insediarsi ed abitare, la perdita dello spazio costruito ed un tempo vissuto. Quel tempo in cui le persone si misuravano con una più intima umanità mentre oggi si misurano con i soldi e la cattiveria. Il tempo della miseria del dopoguerra paesano pieno di calore umano e di solidarietà che oggi non esiste più.
Assorto in questi pensieri, dal camino, ad un tratto, uscì del fumo come se una folata di vento avesse impedito di smaltirlo facendolo tornare indietro e riversandolo nella stanza. Fu allora che si spense la luce e soprattutto mi resi conto che non c’era stata nessuna ventata. La notte è calma!
Mi allontano interrogandomi su chi aveva fatto quegli spiazzi nella neve, del perché di quelle visioni!  
Continuo il mio giro facendomi breccia attraverso una spessa coltre di neve. Tra questi vicoli il silenzio è assordante come se avesse un vuoto da riempire. Forse è questo silenzio che permette a queste anime di “contattarmi”. Passo davanti al Museo di Storia dell’Agricoltura e della Pastorizia vedo uno stuolo di anziani donne e uomini che se ne vanno. Nei loro volti tracce di vita passate, di speranze e di sogni. Storie di uomini e donne, di genitori che hanno affrontato e sopportato sacrifici e privazioni per i loro figli. Sono gli ultimi depositari di coloro che hanno vissuto in totale comunione con la terra, con i suoi tempi ed i suoi frutti e questo abbandono, quello della cultura contadina, nessun museo potrà mai trasmettercelo a fondo e nessun turista potrà mai appropriarsene. I musei salvaguardano e trasmettono la memoria storica, ma non possono evitare la fine di un mondo.
Scendo, poi continuo a salire ed il mio giro lungo le strade dei ricordi prosegue su un pezzo di pavimentazione di grosse pietre levigate dal tempo. Qui vi era una cantina, me la ricordo sempre colma di uomini, tavolini e carte da gioco che alimentavano il soffio di vita di queste case attorno, oggi diventate un popolo di solitudine. Più avanti adesso vi è un bar, ricavato in quella che un tempo fu una storica cartolibreria. Vi andavo spesso trent’anni fa, sin dalle elementari, a comprare materiale per la scuola. Conservo un bel ricordo dell’affabile “Primu i Gigandi”. Supero la strada e dove un tempo si poteva scorgere il movimento e la sacralità del rito contadino legato al frantoio, oggi regna un assordante portone che segna maestoso il tempo passato.
E’ mezzanotte, in Piazza non c’è nessuno. Sembra di stare in un cimitero. Tra poco ricomincia a nevicare. La Chiesa della Maddalena è chiusa ai fedeli da alcuni mesi per i danni riportati durante la scossa di terremoto dell’ottobre scorso. Lo rimarrà fino a quando non si troveranno le risorse economiche per le necessarie riparazioni. Senza entrare nella solita controversia del rapporto tra ricchezza e fede cristiana, tra povertà e ricchezza dei padri della Chiesa, credo che il silenzio di questa chiesa chiusa sia più forte di qualsiasi altra voce dello spirito. Forse rimarrà chiusa per sempre!
Il mio pellegrinaggio sta per finire, come un viandante attraverso questo popolo di solitudine fatto di vedove e vedovi di Vita. 

Un romantico idealista ferito, consapevole che il monumento che oggi dovremmo consolidare e che stiamo perdendo a fronte di una disgregazione, è il tessuto sociale umano moranese, il vero “monumento” della storia del nostro paese. La disponibilità e l’impegno disinteressato, il calore umano, la natura, la vera amicizia, quanto è difficile e faticoso riappropriarsene! 
Oggi tutto è cambiato purtroppo, la famiglia non siede più attorno al focolare, ma davanti alla TV ed a riscaldare la casa provvedono i termosifoni. Nella casa dove sto in affitto non c’è il camino, hanno fatto due bagni ma non hanno pensato al camino. Troppo impegnativo un camino in queste case moderne dove forse preferiscono farti passare la vita su un cesso. Spero di non restarci molto in questa casa dove abito perché nelle sere d’inverno i suoi muri sono tristi e poco accoglienti. 
Passo da mia madre. Lei ancora accende il camino. I ricordi del passato davanti a quelle fiamme sembrano rivivere. Già i ricordi! Sono il nostro patrimonio che nessuno può portarci via, nel bene e nel male.
Quando un giorno con i capelli bianchi penserò ai miei giorni sepolti nel passato, credo che le pene patite mi sembreranno più lievi e le gioie vissute più intense. O forse, ahimè, si tratterà solo delle macerie della mia vita! Chi lo sa.  
Dispersi nel mondo, dovunque voi siate, sedetevi idealmente davanti al fuoco. Questo è un mondo popolato di solitudine che attende un viandante. A te viandante apro le porte del mio paese. Entra, osserva la fiamma ed abbandonati ai ricordi. A te viandante, benvenuto…


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