12 dicembre 2010

Di roccia e pietra: tra i fantasmi di Morano Calabro

SECONDA ed ULTIMA PARTE  
Intimorito come chi è stato colto in flagrante ho un attimo di esitazione, mi volto e sento sfiorarmi anche il viso, ma l’angoscia cede subito allo stupore…che meraviglia! vedo tutto ammantato di bianco, petali leggeri cadono dall’aria fredda e immobile, tutto è pace e silenzio. Per un momento dimentico il maiale ucciso scrollandomi di dosso la neve, poi lo sguardo torna verso la finestra ma sbalordito vedo che all’interno tutto è buio. Sbircio meglio ma l’odore che adesso respiro sa di muffa e di chiuso.  
Smarrito da quella visione scendo le scale, un sottile strato di neve ha già ricoperto ogni cosa. Sento il suono cupo dei miei passi ed il ticchettio della neve che si deposita vicino alle porte, sui tetti diroccati, si insinua leggera e silenziosa nelle finestre buie e sgangherate, occhi malinconici vuoti e spenti come di chi sa che sta per morire. Scendo lungo la via di San Nicola poi proseguo all’interno di un vicolo poco illuminato, passo per il posto che da fanciulli chiamavamo “n’andi i giocattuli”, era il luogo dove andavamo alla ricerca di “tesori”. Per un certo periodo è stato anche il posto dove preparavamo le fritture di gamberi all’aperto, ma questa è un’altra storia.
La neve continua a scendere, il paese è morto o per superare un’altra stagione si è solo addormentato. Passo porte ormai chiuse da tempo vi abitavano dei vecchi che conoscevo, ora stanno tutti al cimitero. Ricordo i loro volti, erano persone alla mano, mi invitavano a casa quando passavo da questi vicoli per recarmi dai nonni. Rifiutavo sempre il loro invito pensando alle raccomandazioni di mia madre: “non entrare a casa di nessuno”, “non accettare niente dagli sconosciuti”. Pensandoci sorrido. Oggi come allora sono sicuro che gli inviti di quei vecchi erano sinceri. Si sentivano soli e cercavano un po’ di compagnia. Ma io tiravo diritto non volevo disubbidire a mia madre. Mentre scorro lungo quelle porte rivedo le loro figure che mi invitano ancora, gli stessi gesti e sorrisi, li saluto con gli occhi umidi di pianto sussurrando sottovoce una preghiera. Passo davanti al portone dove abitava una vecchia di cui avevo paura, si diceva che era una fattucchiera e che rubava i bambini per servirsene nei suoi riti magici. Stava sempre chiusa in casa, usciva solo per ritirare la pensione. Si racconta che dopo pochi mesi di matrimonio il marito era partito per la guerra ma non aveva più fatto ritorno, non avevano figli, rimase sola per tutta la vita senza più risposarsi. Una vicina negli ultimi tempi provvedeva a farle la spesa. La vecchia gli dava i soldi sull’uscio della porta senza farla entrare, al ritorno la donna dava un colpo alla porta, era il segnale che la vecchia vedova poteva ritirare quel poco di roba lasciata sul gradino. Non chiedeva mai indietro il resto, così raccontavano. Io la vidi una volta: era alta, magra, il viso nascosto all’interno di un fazzoletto dalla quale uscivano ciuffi di capelli grigi come la cenere, vestiva tutta di nero infagottata all’interno di un grosso scialle dalla quale penzolavano grossi fili di lana.

Temevo quella vecchia, più per quello che si raccontava in giro che per il suo aspetto, ma la paura, che è la madre del coraggio, mi spingeva alla curiosità. Ero solito spiarla nelle sere d’inverno quando andavo dai nonni. Venivo attratto dal luccichio della brace che illuminava quell’antro buio e scuro. Stava sempre accanto al braciere. Mi arrampicavo sul muro facendo presa su alcune pietre sporgenti. Oggi senza arrampicarmi riesco a scrutare dal vetro cosparso da leggere bave di ragnatele, se sbircio bene… ecco è ancora lì proprio come me la ricordavo, seduta accanto ai carboni accesi, la testa china avvolta nel fazzoletto con il labbro pronunciato che sporge. Quella povera vecchia non faceva male a nessuno, aveva deciso di morire insieme al marito tanti e tanti anni fa chiudendosi nel dolore, il gelo che arriva a primavera fa seccare i germogli della vita.
 
Scendo i gradini al buio aiutandomi col chiarore della neve, lascio orme che velocemente vengono coperte da coriandoli leggeri. Avvinghiata lungo il muro di una casa abbandonata, una vite, con esili dita bianche, minacciosa cerca di acciuffarmi, la supero passando di lato le mura diroccate dell’antichissima chiesetta del Purgatorio, mi fermo ad osservare l’albero di albicocche che cresce all’interno di quelle rovine, a primavera quando sboccia sembra un fiore su una tomba, adesso nell’oscurità il lucore dei suoi rami disegna croci come gesso su una lavagna nera.
“Ndi Lauri” ho trascorso la mia infanzia, un tempo tra queste viuzze c’era la vita, d’estate noi fanciulli tardavamo sino a notte fonda a far baldoria, d’inverno quando la morsa del gelo costringeva a stare chiusi al caldo vicino ai camini, se uscivi per questi vicoli potevi sentire l’odore “ra frascatula” o quello inebriante “ri pateni cu stoccu”, adesso vi regna una desolante tristezza che mi stringe il cuore. Non si sentono più gli odori di una volta, tante persone sono partite, molte per sempre, altre ancora a cercar fortuna. Non le ho più riviste.
La neve continua a venire giù coprendo di bianco ogni cosa come una coperta sempre più pesante. I nostri genitori ed ancor prima i nostri nonni sono nati tra queste rocce, tra queste pietre secolari che hanno visto gli stenti e la fatica di molte generazioni. Questo paese desolato e vuoto ha perso la sua voce, nessuno più l’ascolta. Solo nelle lunghe notti invernali se tendi l’orecchio puoi sentire le case scricchiolare, stringersi in un ultimo abbraccio, puoi sentire un grido silenzioso semplice e genuino verso i ricordi e un vissuto quotidiano che non chiedeva nulla di più del semplice vivere.
C’è una luce subito dopo “u sipportu”, proviene dalla casa i Cuma Nuccia e Cumpa Luigiu gli ultimi anziani che lottano tra questi vicoli. Hanno da poco ristrutturato la casa, il Comune non li ha dato nessun aiuto economico, lo hanno fatto con i loro risparmi, quelli di una vita.
 
Busso, Cuma Nuccia scruta dal vetro della finestra, ormai in questo paese non ci si fida più di nessuno e pensare che un tempo nella serratura esterna delle porte vi rimaneva la chiave dalla mattina alla sera. Nei vicinati di un tempo ognuno sorvegliava la casa dell’altro. Nei vicinati di oggi tutti spiano la casa di ognuno.
- Chi beji giranno cu su tembu!?
- Sungu ngiru a roppumangetu Cuma Nù, u tembu jera mbrioca. Meji pinzannu ca mi ci cughijri a niva!
- Tresi, tresi, vèniti scarfa.
Meno male che porto sempre lo zaino e ciò tutto all’occorrenza.
Luigi e Carmela (per tutti Nuccia) sono persone gentili, nei loro occhi acquosi, nelle loro dita storte e spaccate dalla terra si capisce che è gente rigorosa nella fatica ma cordiale nella festa e nell’accoglienza. I figli sono partiti al nord da molto tempo, tornavano spesso in estate con le famiglie, rammento una bella fanciulla, con lei torna alla memoria un ricordo lontano e con esso un amore ingenuo e buono.
 
Bagniamo i ricordi con qualche buon bicchiere di vino. Cumba Luigiu è un uomo affabile, al dialetto alterna anche l’italiano così come la moglie che nel mentre ci versa ancora un bicchiere e poi poggia sul tavolo un’altra scodella colma i “fevi arrappeti”.
Ero intento ad osservare le spavalde acrobazie del fuoco quando Luigi col bicchiere in mano disse:
- «jerumu poveri e la genti si vulija beni, tutti erano contenti ru pocu c’avijinu, mo invece tutti tengono tutto e nisciunu è contento di niente. Mangiavano tutti nda stessa coppa, c’era il rispetto, a disciplina, mo tutti fenu quiddru chi bbonu e nun si capiscia nente. C’erinu puru tannu i vacabunni e l’attaccabrighe ma era gente che si ubriacava, nunni ricijia proprio di lavorare. Ndu munnu i goi a genti s’ammazza pi nnu parcheggiu i machina, apprima s’ammazzavunu pi nnu pezzu i terra addrù ciavijinu scianghè puru u culu. Apprima s’angappava u tostu e lu moddru, i giovini a vent’anni avijinu già na famigghjia, avevano molte responsabilità che gestivano cu pacenza e tanti sacrifici.»
d’un tratto lo interruppi
- «Cumba Luì i giovani i mo venu in crisi pi i semi all’università o picchì nun riescono a trovare il look giusto.»
- «Nù chi jè su luc?» chiese Luigi rivolgendosi alla moglie
- «Cumbà Luì cumi tu spiego. Je l’immagine, nun zenu cumi se na tagghjiè i capiddri, cumi se na vesti, chi rrobbi se na mindi ja» risposi
- «Chi vo ffe na cangareja apprima jijimu chi pezze ngulu» brontolò
- «Cumba Luì i tembi su cangeti» dissi
Poi il tono di Luigi si fece di nuovo serio mi sembrò che con lo sguardo cercasse qualcosa nell’aria
- « Aspittavumu ura prima ca quatrareddra chi ni piacijiri ni guardava, nun zapijimu nendi ru sesso, i ssi malatiji chi ci su mo, eppuru ti ricu ca u capiscijimu quannu jerumu veramendi mannureti. I giovani i mo senu tuttu supa assi malatiji, cume se na proteggi e tandi cosi, ma non riescono a riconoscere i propri sentimenti».
 
Ascoltavo quell’uomo come facevo con mio nonno vicino al camino nelle notti d’inverno
- «Nisciunu mo vo ffe nendi. Apprima nunn’abbindavumu na picchi. Mo quannu s’era acciri u porcu nun zi prisenda nessuno, invece tutti si presentano quannu c’è ddra mangè u prisuttu. Je rico che scundu u munnu Robè, nu malla più nessuno, a gendi s’accorgiri ru focu quannu arriviri alla porta, sulu tannu ci jettunu nu sicchiu i acqua, ma jè troppo tardi, u focu arriva e vrucia. E nandi a ssi porti u focu je già arrivetu! Je nu focu chi vrucia sulu e nu scarfa.»
Nuccia e Luigi danno l’idea dell’Amore, di quell’amore che per vivere non ha bisogno che di affetto reciproco, guardandoli immagini che potranno amarsi davvero in eterno.
Me ne vado nel cuore della notte. Questo mio viaggio sta per finire. Tante cose ci sarebbero da ricordare e raccontare ma restano in fondo al mio cuore depositate come la posa del vino sul fondo della bottiglia, altre le ho dimenticate nel sonno profondo della memoria perduta.
 
D’estate tra questi vicoli non arriva mai il sole, i muri delle case perennemente ricoperti di muschio verde adesso sono avvolti da una sottile barba di neve. Passo davanti la casa dove ho vissuto per molti anni, c’è ancora la luce a casa dei miei, non litigano più, mio figlio da quando è nato ha portato la pace. Alzo lo sguardo verso la finestra di quella che era la mia stanza, c’è buio ma se osservo bene vedo ancora un bambino col naso e le mani schiacciate contro i vetri appannati come allora incantato a contare i fiocchi di neve.
Oggi ho visto tanti cartelli attaccati: AFFITTASI, VENDESI, VENDESI, AFFITTASI, ho incontrato solo solitudine e abbandono, camminando tra queste vie ho avuto la sensazione che la vita non tornerà più dentro queste case.
Spio dentro il buio degli ultimi scantinati, l’odore del tempo passato mi impregna le narici, tendo l’orecchio sento il passo dei ricordi, prendono forma, si muovono, respirano, sento bisbigli lontani…è un mondo passato da appena ieri.
Amo il mio paese, di un amore che ha radici vive nella carne, ma credo che nessuno potrà salvarlo dall’abbandono, abbiamo smarrito la quotidiana essenza ormai dimenticata della vita semplice.
Nevica. Nevicherà anche in estate per chi è senza memoria e per chi ha paura del tempo, perché c’è un tempo che passa per non tornare, c’è un tempo per capire che le cose cambiano e cambiando si allontanano e separano. Nevica e c’è questo tempo per sognare, per vincere le nostre paure, risalire a galla e continuare ad amare.
Il mio viaggio è finito, con le mani in tasca cammino su una lunga strada senza marciapiedi, dietro di me, in mezzo a quel mucchio di case scorgo una luce…è un filo che nel silenzio si tende per un SEMPRE sospeso...

4 commenti:

U Lupu ha detto...

Beh, forse il tuo "grido silenzioso semplice e genuino" verrà ascoltato o forse chissà. Sicuramente quello che tu hai dentro, è un pò quello che abbiamo dentro tutti noi....noi che siamo cresciuti all'ombra delle cose semplici in un mondo che stava crescendo in fretta e che non ci piace affatto com'è venuto! Andiamo avanti con la consapevolezza che non abbiamo bisogno di grandi cose. Tu d'altro canto hai magnificamente descritto uno scorcio di mondo estinto....continua così...sono davvero orgoglioso di te!
Un forte abbraccio a te e alle persone che ami.

indio ha detto...

Nuwanda, questo è uno dei tuoi "post" migliori, degno di un libro di Mauro Corona. Una rievocazione bellissima e densa di poesia di quel mondo contadino che ci appartiene e che ci seguirà per sempre, dovunque arriverà il nostro cammino. Condivido profondamente il messaggio finale: "Nevica e c’è questo tempo per sognare, per vincere le nostre paure, risalire a galla e continuare ad amare." Quanto alle foto, accompagnano in maniera suggestiva il tuo racconto. Bravo...
Un abbraccio

pollino.....culla degli dei ha detto...

la tua capacità di raccontare, in immagini e parole, le nostre radici, è poesia.

Anonimo ha detto...

Mi sono imbattuto cosi' per caso nella tua pagina e mi ha fatto tornare indietro di qualche decennio, quando io ragazzino di Castrovillari, passavo l'estate a casa dei miei nonni in via Domenico Cappelli vicino il negozietto detto di "BIAGIO
I CARROCCIULA", cosi' lo chimava mia nonna.Correvo su e giu' per quelle scalinate ripide fino all'orto di NOIA dove mi aspettavano i miei amici per le solite partite... Di Morano ho tanti bei ricordi... Oggi sono sposato ,ho due figli, i nonni non ci sono più, vengo a Morano solo per un caffè in qualche bar con gli amici ma mi fa piacere sapere che c'è ancora qualcuno che riesce ad evocare così bene i miei ricordi d' infanzia.

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